Prefazione – 2023
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“Un uomo che non sia stato in viaggio in Italia sarà sempre cosciente della propria inferiorità, per non aver visto ciò che un uomo dovrebbe vedere” (Samuel Johnson).
Il “viaggio in Italia” è una costante della storia europea dal Medioevo in poi. Nell’età di mezzo il fine principale è quello religioso, che ha come meta precipua la capitale della cristianità, o di studio, come dimostra il soggiorno che ai primi del Seicento condusse nella penisola il grande umanista Erasmo da Rotterdam.
Nel corso dei secoli successivi, ad iniziare da Seicento e Settecento, il viaggio italiano è destinato a formare il giovane gentiluomo che deve diventare consigliere di corte o imparare a gestire i beni di famiglia. Ben presto, però, diventa soprattutto mezzo di accrescimento personale. La letteratura di viaggio, nel ‘700, ne testimonia bene l’evoluzione, raccontandoci l’obbligato confronto con l’impegnativa eredità culturale, la diversa mentalità, la differenza dei costumi, la stessa vita quotidiana.
Inizialmente effettuato solo dai giovani dell’aristocrazia britannica, l’uso di un viaggio di istruzione si estese presto a francesi, già al tempo di Luigi XIII e del Re Sole, e poi a fiamminghi, olandesi, tedeschi, svedesi, russi e ancora altri provenienti da ogni Paese d’Europa.
Questo viaggio, intrapreso con regolarità, presto diventa una moda e ad esso è assegnata anche una dicitura internazionale: il Grand Tour.
Memorie di viaggio tra profumi e sapori
Di questo giro italiano diventa momento saliente anche l’esperienza gastronomica, che apre i viaggiatori a un universo di profumi e sapori, tanto diversi quanto le diverse aree geografiche italiane. Le memorie di viaggio ci permettono di conoscere ciò che si mangiava nei luoghi dove i viaggiatori si recavano e, in alcuni casi, anche di conoscere usi e costumi alimentari delle diverse classi sociali.
La cultura alimentare delle classi privilegiate, diventa vera e propria esibizione di opulenza durante i ricevimenti, come quello di cui fa memoria il presidente del Parlamento di Borgogna, Charles de Brosses, che descrive il pranzo offerto nel 1740 dall’ambasciatore di Francia a Roma alla nobiltà cittadina ed ai cardinali: tacchino, pernice, capriolo, salmone, prosciutto, frutta candita e altro, alimenti costosi e ricercati.
A questi banchetti si contrappone il cibo che i viaggiatori trovavano nelle osterie lungo le strade e nelle città. Per lo più si trattava di cibo povero e di scarsa qualità e servito in ambienti molto trascurati dal punto di vista igienico. L’ugonotto francese François Maximilien Misson, alla fine del suo tour in Italia nel 1688, annota impietosamente:
“Nulla è più miserabile di un pasto negli alberghi nelle piccole città, e in particolare su certe strade. Cominciano il pasto con un piatto che chiamano antipasto, che è un piatto di ventrigli, o di zampe e di ali bollite con del sale e del pepe, mischiato a qualche bianco d’uovo. Seguono uno dopo l’altro due o tre piatti di diversi stufati, ma tutto in piccola misura. Andando da Roma a Napoli si può talvolta avere del bufalo o delle cornacchie: sempre se si è fortunati. Il bufalo è di carne scura, puzzolente e dura.
Agli albori dello street food
Molti viaggiatori rimanevano colpiti dall’abitudine, specialmente nel Sud, di consumare i pasti per strada, come per esempio piatti a base di maccheroni. Questo cibo popolare aveva contagiato nel tempo anche l’aristocrazia, per esempio quella napoletana. Lo stesso re Ferdinando IV ne era ghiottissimo e come il popolo li mangiava con le mani. Molte delle strade dei quartieri popolari avevano osterie all’aperto, dove i maccheroni bollivano sempre, insieme al sugo di pomodoro, pronti ad essere spolverati con il cacio piccante.
Lo stesso Sigmund Freud, uno dei celebri viaggiatori nella penisola, è un grande estimatore dei pranzi e cene all’aperto. Nei suoi taccuini ne ricorda diversi, fra gli altri: quello nella piccola isola dei pescatori sul Lago Maggiore, con la barca attraccata proprio davanti; l’altro in Piazza Colonna a Roma, in “mezzo alla storia stessa”;infine l’indimenticabile cena di mezzanotte nelle viuzze della vecchia Napoli.
Tra cucina aristocratica e caffè storici
Di altro tenore i rilievi di Nietzsche sulla cucina dell’aristocratica Torino. Qui “il cibo è straordinariamente salutare, la cucina coscienziosa, accurata e raffinata”.
Presso il Ristorante del Cambio consuma spesso “enormi porzioni di saporite minestre, pasta italiana di grande qualità. Per quanto riguarda i secondi, insieme a pezzi di tenerissa carne, servita con verdure assortite, ricorda con particolare piacere gli ossibuchi e l’apprezzatissima carne di agnello”.
Nel Grand Tour non possono mancare, soprattutto da parte dei grandi della cultura, le tappe nei Caffè storici delle città d’arte. Se prendiamo ad esempio Venezia, il più prestigioso e antico è il famosissimo Florian. Inaugurato nel 1720 da Floriano Francesconi con il nome di “Alla Venezia Trionfante”è stato ribattezzato “Al Florian”per il modo di dire dei suoi avventori “andemo da Florian”.Tra i tanti illustri frequentatori Charles Dickens, Johann Wolfgang Goethe, Jean-Jacques Rousseau. Sempre in Piazza San Marco si trova il Caffè Quadri, fondato nel 1775 dal mercante Giorgio Quadri e frequentato da personalità del calibro di Stendhal, George Byron, Alexandre Dumas padre, Richard Wagner, Marcel Proust e il Caffè Lavena del 1750, amato dai musicisti Franz Liszt e Richard Wagner.



