La Sicilia e il cibo, che bello contaminare in questo mare…


La Sicilia e il cibo, che bello contaminare...

LE MILLE SPONDE MEDITERRANEE DELL’ISOLA, UNA ED INFINITA

Lo storico Fernand Braudel afferma che il “Mediterraneo è mille cose insieme”. Quasi come contrappunto lo scrittore Gesualdo Bufalino afferma che “Le Sicilie sono tante, non finirò di contarle”. Ci sembra proprio questa la cornice culturale migliore per inquadrare il nostro viaggio tra storia, cultura e cibo. In esso Sicilia ed area mediterranea sembrano corrispondersi in un suggestivo gioco di specchi che riverbera i propri riflessi entro un arco spazio-temporale che abbraccia il “mare nostrum”. Sicilia, dunque, non isola di utopia o luogo di meri approdi immaginari, ma terra di incontri concretamente realizzati e capace di affascinare e calamitare popoli e personaggi che l’hanno conquistata, abitata, sfruttata e arricchita finendo sempre per lasciare una traccia che si è sovrapposta e integrata a quelle precedenti. Il clima mite, la fertilità dei terreni, la biodiversità vegetale e animale e la pescosità del Mediterraneo hanno ispirato eccezionali connubi di ingredienti mediterranei e importati. È nata una cultura gastronomica che raccoglie le tracce di popoli e culture avvicendatesi nell’arco della storia. Solo per citare le “presenze mediterranee”, ricordiamo: Sicani, Siculi, Elimi, Fenici, Cartaginesi, Greci, Romani, Bizantini, Arabi, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Spagnoli.

STREET FOOD IN SICILIA: DA PLATONE ALLA VUCCIRIA

Nelle città greche di Sicilia si mangiava anche per strada, nel thermopolion (una sorta di friggitoria all’aperto). Passeggiando per i banchi, tutti i sensi del viandante erano sedotti dai profumi penetranti del cibo cotto, da piluccare sul posto o da portare a casa, erano verdure bollite, interiora bollite o arrostite sulla brace, pesci fritti…Uno dei primi precursori della cucina semplice e genuina di queste terre è Archestrato (Gela, III secolo a.C.). Sedotto dai mitili di Messina, appassionato estimatore del branzino di Mileto e del tonno che si pescava a Solunto è contrario a forzate sofisticherie. Per questo ama i sapori naturali dei cibi, gustati nella loro arcana e insostituibile bontà, le sue pietanze non richiedono preparazioni laboriose né intrugli untuosi. Il suo pesce, arrostito o bollito, vuole solo un contorno di erbe aromatiche che ne esaltino il sapore. Ed anche Platone, celebre ospite della terra siciliana, preferiva la sobrietà del cibo. Nella sua polis ideale aveva stabilito criteri alimentari assai severi per quegli abitanti-cittadini ideali: “È evidente che essi avranno sale, olive, formaggio, cipolle e verdure che sono cibo dei contadini. Per concludere il pranzo gli serviremo fichi, ceci e fave, arrostiremo sulla brace bacche di mirto e castagne che essi sgranocchieranno bevendo vino con moderazione.” Ma veniamo ai nostri giorni, con la bussola diretta su Palermo e la Vucciria (mercato storico della carne e dei prodotti di origine animale) per far luce su un’imperdibile prelibatezza da street food: pani câ meusa. Si tratta di un tipico piatto da passeggio, panino con interiora di vitello (milza, polmone e trachea) bollite intere e poi tagliate a pezzi e soffritte nello strutto; al momento di servirle vengono poste tra due fette di pane morbido

al sesamo, detto vastella, condito solo con una spruzzata di limone oppure irrobustito con aggiunta di ricotta o caciocavallo.

LA CUCINA DELLE QUARTARE E DELLE MINIERE

La cucina siciliana povera sviluppa tutto un fiorire di ricette popolari, forse meno curate nell’aspetto ma spesso d’ottimo sapore, che rispondono in maniera altamente positiva ad altre e ben più pressanti necessità. Per loro c’era la cucina del pescato povero, quella che sfama le famiglie dei piccoli borghi marinari, ben rappresentate nella loro esistenza dal Verga dei Malavoglia. Un desinare di piatti semplici dove sarde, acciughe, sgombri, pesce ombra sono spesso acconciati in zuppe profumate d’aglio e cipolla in cui intingere gran quantità di pane di grano duro. È anche la cucina contadina delle quartare di terracotta riempite con un macco di fave o una minestra di verdure e pasta da aprire nella pausa del lavoro in campagna. Contenitori capaci di conservare il calore di questo povero pasto che doveva essere subito disponibile magari condito da un semplice giro d’olio. Le sfaccettature sono tante, a questo filone appartiene la cucina dei lavoratori delle miniere che si contentavano di pane olive e cipolle o poche sarde cotte nella “palata di zolfo bollente”. Dell’area delle solfare è anche un piatto chiamato u’pitirri, che, avendo come ingredienti la semola di grano duro, il finocchietto selvatico e varie verdure, finisce per avere un colore giallognolo, con striature di verde che, non a caso, ricorda proprio quello delle miniere di zolfo. Trattandosi di una minestra povera si rifà alla tradizione del farro di retaggio mediterraneo. Probabilmente è stato importato dall’Africa proprio in epoca romana.

DONNAFUGATA ED IL TORREGGIANTE TIMBALLO DI MACCHERONI

Nella multiforme realtà sociologica siciliana la cucina oscilla tra sobria essenzialità popolare e ricercata elaborazione barocca. Alla fine del Cinquecento, il segretario di Lucrezia Gonzaga scriveva a un suo amico: “veramente ti porto grande invidia, perché giungerai nella ricca isola di Sicilia e mangerai di que’ maccheroni”, cotti con grassi capponi e caci freschi, conditi con zucchero e cannella con “liberale e larga mano”. Qualche secolo più tardi, nelle pagine di Giuseppe Tomasi di Lampedusa il cibo è elemento importante, che rimanda al nutrimento quasi per caso e subito si impone con la sua carica simbolica: basti pensare al “torreggiante timballo di maccheroni” servito a Donnafugata la sera in cui Angelica viene presentata in casa Salina, quando l’involucro di pasta dorata che racchiude un ricchissimo ripieno sembra il trionfante prodotto di venticinque secoli di gastronomia siciliana. Se l’ingresso di Angelica è una prova di forza e splendore, è il timballo ad essere incaricato di rappresentare la ricchezza simbolica della decadente nobiltà al tramonto di un’epoca.

CROCE E MEZZALUNA: “DOLCI” TRAVERSATE MEDITERRANEE

Ogni pasticceria siciliana è un vero e proprio caleidoscopio sensoriale, che rimanda ad un fitto intreccio di riferimenti mediterranei. Con i popoli dell’Oriente l’arte dolciaria siciliana condivide molti elementi. Ad esempio il pistacchio (fastuca in siciliano dall’arabo fustaqīya), ingrediente di un torrone chiamato sabunīya e fustaqīya appunto, simili alla cubaita. Mandorla, farina, amido, zucchero, riso, spezie orientali come lo zafferano o il cumino o il coriandolo, connotano i sapori e i profumi che contraddistinguono le grandi feste dell’anno. Proprio le “cose dolci” (i cosaruci) fanno la festa. La frutta martorana in particolare, caratterizza la ricorrenza dei Morti. Questo straordinario dolce, che si chiama anche marzapane o pasta reale, secondo la tradizione fu importato dai Crociati dalla Terrasanta. Un altro dolce condiviso sono i pupi di zucchero che ancora oggi si confezionano a Palermo. La stessa tradizione si riscontra a Tunisi, precisamente a Nabeul, l’antica Neapolis. Il regalo lo fanno i genitori ai bambini per festeggiare l’anno nuovo, precisamente il Capodanno, in ricordo della fuga di Maometto a Medina. Uno di questi antichi sapori mediterranei, anzi arabi, viene dalla tradizione della pasta reale, o meglio del marzapane, che affonda le radici nel Medioevo, quando in Sicilia convivevano popoli diversi e gli Arabi diffondevano la piacevolezza del gusto dolce dello zucchero. Il marzapane siciliano, infatti, si diffuse durante la dominazione araba, perché prima di allora lo zucchero in Europa non era conosciuto. Anche il termine “marzapane” deriva dalla parola araba manthàban che indicava il contenitore dove si riponeva il dolce, ma lo stesso termine indicava sia la moneta con cui poteva essere acquistato, sia la misura di capa- cità utilizzata per calcolare la quantità di zucchero e mandorle.

SAPORI DEL GIALLO NEL MARE NOSTRUM

Per Petros Markaris, giallista greco, il noir mediterraneo ha due caratteristiche, le città e il cibo. La cucina è una componente importante di tutti i romanzi polizieschi mediterranei, da Andrea Camilleri a Jean Claude Izzo, da Manuel Vázquez Montalbán al sopracitato Petros Markaris. Ma se il cibo può essere evocato come un elemento unificante, non ha lo stesso valore per tutti. Il commissario Salvo Montalbano di Andrea Camilleri è saldamente ancorato ai cardini della cucina siciliana, declinata con passione e assoluta devozione. Il cibo è da degustare in silenzio assoluto. I manicaretti di Adelina o Calogero sono il meglio della sicilianità a tavola. Pepe Carvalho è l’investigatore privato protagonista dei romanzi di Manuel Vázquez Montalbán, scrittore catalano. Carvalho è gastronomicamente eclettico. I suoi gusti fondamentali provengono dalla cucina popolare, povera e immaginativa della Spagna, integrata con la cucina d’autore dovuta a diversi ristoranti della Spagna e con quella di svariate gastronomie straniere. Kostas Charitos, figlio letterario di Petros Markaris, è commissario ad Atene. È sposato con Adriana, cuoca di prim’ordine che smussa i contrasti familiari ricorrendo ai piatti della tradizione popolare greca. Per Kostas Charitos la “via del cibo” offre prima di tutto la misura della grave crisi economica e sociale; è a tavola che si capisce come i greci abbiano smarrito quella “cultura della povertà” che li rendeva in grado di resistere alle avversità. La cucina dei Charitos diventa così il laboratorio sociale privilegiato per capire davvero cosa stia accadendo nel paese. Infine, è intorno al Vieux Port di Marsiglia, ai quartieri dove marinai e immigrati si mescolano e si confondono, che conduce le propri indagini Fabio Montale, l’ex poliziotto divenuto investigatore privato attraverso il quale Jean Claude Izzo ha riscritto, anche in senso gastronomico, la storia locale. Nella cucina di Marsiglia raccontata da Izzo si scoprono le mille radici della città, dove ricette italiane, greche, arabe e ebraiche si intrecciano inestricabilmente. Per Fabio Montale mangiare è allo stesso tempo un profondo piacere e un atto di resistenza alla minaccia rappresentata dalla crescita del razzismo. L’amore per il cibo guida verso la rivendicazione di un’identità plurale, fatta di frammenti che si completano a vicenda e che per questo non possono fare a meno gli uni degli altri.

 

     

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