Nel primo secolo della nostra era, l’imperatore romano Claudio, che regno’ dal 41 al 54 d.C., fu un appassionato studioso del popolo etrusco; egli pubblicò in lingua greca un’opera monumentale sugli Etruschi, in ben venti libri, dal titolo “ Tyrrhenika’”.
Questo testo purtroppo non è arrivato fino a noi; una perdita irreparabile, perché su questo popolo autoctono, che abitò in antico gran parte dell’Italia centrale (la Toscana, gran parte dell’Umbria e l’alto Lazio), e che parlò una lingua non indoeuropea, sinora decifrata ma non interpretata, gli autori greci e romani, come Erodoto, Dionigi di Alicarnasso, Livio ed altri, hanno dato molte informazioni, ma non hanno lasciato una trattazione sistematica.
Ma è l’Etruscologia contemporanea che ha fatto passi da gigante. Il ‘900 ha visto l’opera fondamentale di Massimo Pallottino, di Ranuccio Bianchi Bandinelli, di Guglielmo Maetzke e di tanti altri ancora. A Firenze la cattedra di Etruscologia è stata esemplarmente ricoperta per lungo tempo dal prof. Giovannangelo Camporeale e dal prof. Luigi Donati.
Un anno fa il Donati ha richiamato l’attenzione del pubblico sulla principesca tomba etrusca che si troverebbe sotto il Cimitero degli Inglesi, a Firenze, nell’odierna Piazza Donatello.
Nella zona di Borgo Pinti, che ha inizio appunto proprio di fronte al Cimitero degli Inglesi, passava l’antico tracciato che collegava la città etrusca di Fiesole alla riva destra dell’Arno e, stando al Donati, nella zona si trovava una vasta necropoli etrusca (cfr. “Archeologia Viva” 224, luglio/agosto 2024, 40-50).
Una straordinaria urna funeraria etrusca (un cinerario) in terracotta della metà del VII sec. a.C., proveniente da Montescudaio (nella Val di Cecina, nella Maremma Pisana) reca sul coperchio la raffigurazione plastica di un uomo a banchetto. L’uomo, evidentemente il defunto, è seduto davanti ad una tavola riccamente imbandita e accanto a lui sta in piedi una figura servile che mesce il vino da un grande “dinos” posto lì accanto. L’opera è custodita oggi al Museo Archeologico di Villa Guerrazzi a Cecina. Si tratta di una testimonianza fondamentale per comprendere il fatto che gli Etruschi nei tempi più antichi erano soliti banchettare seduti a tavola e che l’uso della “kline”, il tipico divano utilizzato per il banchetto, è subentrato più tardi, dietro l’influsso delle colonie greche, soprattutto quelle della Magna Grecia e della Sicilia.
Due grandi poeti latini, Catullo e Virgilio, hanno definito gli Etruschi, o Tirreni, rispettivamente “oboesus Etruscus” e
“pinguis Tyrrhenus” (Carm. 37, 2 e Georg. II, 139). Evidentemente i romani ritenevano che gli Etruschi si nutrissero assai lautamente.
Infatti Ateneo di Naucrati, citando il filosofo greco Posidonio (I sec. a.C.), ci informa che gli Etruschi imbandivano le mense ben due volte al giorno con tappeti variopinti, con vasi e coppe d’argento e con un gran numero di servi che assistevano portando vesti splendide e di grande valore (Deipnosofisti, IV, 153c).
La scultura antica conferma le definizioni dei poeti: al Museo Archeologico di Firenze è conservato il coperchio di un sarcofago etrusco in alabastro, che è detto proprio “dell’obeso” (da Chiusi, della prima metà del III sec. a.C.). Il ricco defunto è raffigurato disteso sulla “kline”. Il suo ventre è grasso così come il petto e gli arti superiori.
Comprendiamo che l’obesità costituiva uno ‘status symbol’ dell’agiato ceto sociale di appartenenza e che anche il vistoso anello all’anulare sinistro sottolineava la ricchezza dell’uomo.
Altri pingui etruschi sono raffigurati su sarcofagi provenienti da Orvieto e Viterbo. Bellissimo anche il “sarcofago dell’obeso” conservato al Museo Archeologico di Tarquinia.
Tuttavia la mensa della gente comune era decisamente meno variegata e più povera di quella aristocratica. Il farro ed i legumi erano i cibi più in uso. Un piatto molto comune era la “puls”, ossia una polenta di farro che poteva anche essere condita con sughi di carne o di verdure.
Anche la minestra di farro, come asserisce Giovenale, era un altro alimento tipico della cucina etrusca (Satire, XI, 108).
Il pane si faceva tanto con farine di grano tenero che con farine di cereali. Da notare che i campi dei Tirreni producevano cereali con tale abbondanza che, quando a Roma si verificarono periodi di carestia, si comprò il grano etrusco (Livio, II, 34).
Il consumo delle carni, salvo rari casi, era circoscritto ai suini e agli ovini. Sarà un caso, ma la pecora in umido è un piatto tipico di Campi Bisenzio (Firenze), ed è anche entrato nella tradizione culinaria di Prato. In antico la pecora era mangiata dalle popolazioni etrusche della zona. Ricordiamo che poco distante dal centro di Prato sorgeva l’abitato etrusco di Gonfienti, recentemente riscoperto.
Furono gli Etruschi i creatori di una specialità culinaria straordinaria: il prosciutto!
Famoso quello di Caere (Cerveteri), ricordato anche da Marziale (Epigrammi, xiii, 54). Scrive il poeta:
“ Mi si dia un prosciutto Cerretano, o mi si mandi un prosciutto del paese dei Menapi; il prosciutto di spalla lo mangino i buongustai “.
La critica discute sull’interpretazione da dare all’aggettivo ‘Cerretanus’, che può essere attribuito a Caere, dove tutt’oggi si produce un ottimo prosciutto, oppure ad un prosciutto dei Pirenei, prodotto dai Cerretani, una popolazione della Hispania Tarraconensis: insomma, un pregevole antenato del moderno ‘jamon’. Il prosciutto del paese dei Menapi, invece, era una specialità della Gallia del Nord, affine, si pensa, all’odierno pregiato prosciutto belga, il celebre ‘jambon d’Ardenne’.
Riteniamo che in questo caso Marziale alluda al famoso prosciutto dei Tirreni.
Il ceto etrusco più abbiente poteva mangiare anche la cacciagione: cinghiali, caprioli, cervi e lepri. Gli uccelli, invece, essendo più facili da catturare, erano un cibo per tutti.
Quanto al pesce, Strabone (Geographia, V, 2,9) afferma che i laghi dell’Etruria erano ricchissimi di pesci e di conseguenza anche di pescatori.
Non va dimenticato l’ampio consumo che i Tirreni facevano di latte e di latticini; un formaggio particolarmente pregiato veniva da Luni (in Lunigiana). Marziale (Epigrammi, xiii, 30) ricorda il
“caseus Etruscae signatus imagine Lunae”.
Prima di concludere, dobbiamo ancora ricordare un elemento fondamentale della dieta degli Etruschi, cioè l’olio di oliva.
Ancora oggi la Toscana è una terra ricca di olivi, bellissime piante che costituiscono un elemento caratteristico del nostro paesaggio. E sono Toscana, Umbria e Lazio, cioè le regioni in cui più forte è stata la presenza etrusca, che forniscono quasi il 10% della produzione italiana di olio.
Si dice che l’introduzione dell’olivo in Etruria sia stata determinata dai contatti con i Greci; comunque sia, l’olio era ampiamente usato in cucina, ma forniva anche un unguento per lo sport e, opportunamente profumato, anche per la cosmesi.
Per un’ampia e più esauriente trattazione del tema dell’alimentazione presso gli Etruschi si veda:
G.M. DELLA FINA, Etruschi. La vita quotidiana. Roma 2024.