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A 700 anni dalla morte, il cibo in Dante Alighieri: tutto ebbe inizio con “grosse lamprede”…


Ilaria Persello
A 700 anni dalla morte, il cibo in Dante...
Posted on 22nd Marzo 2021 by Ilaria Persello
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“Grosse lamprede, o ver di gran salmoni, aporti, lucci, sanza far sentore. La buona anguilla non è già peggiore; alose o tinche o buoni storioni. Torte battute o tartere o fiadoni: queste sono cose da acquistar mi’amore, o s’è mi manda ancor grossi cavretti, o gran cappon…”

(Il Fiore, 1283-1287)

Il Fiore, poemetto in volgare attribuito al giovane Dante Alighieri, ci può servire da punto di partenza per un piccolo excursus del cibo nei componimenti del Sommo Poeta. 

Le funzioni che il cibo assume tuttavia sono diversificate a seconda delle varie opere e, all’interno di esse, di varie tematiche. Nel Convivio, ad esempio, scritto tra il 1304 e il 1307, viene sviluppato il pensiero del banchetto come una mensa di sapienza, tematica cara alla tradizione platonica e biblica. Frequenti sono però le metafore legate al cibo.

“…Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca! E miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo! […] Coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire mangiando”.

Nel periodo in cui Dante Alighieri visse a Firenze, verso la fine del XIII secolo, la città stava raggiungendo un ottimo tenore di vita civile e culturale. Il benessere economico aveva creato i presupposti per uno sviluppo della città in senso artistico e culturale.

Nell’opera di Dante convergono la cultura medievale e gli inizi di una nuova epoca. Infatti anche la cucina divenne, in questo periodo, più ricca e raffinata: dalla Sicilia arrivavano le mandorle, la frutta candita e lo zucchero di canna; dall’Oriente le profumatissime spezie. I mercati fiorentini, ben organizzati e controllati dalle autorità, erano ricchi di prodotti, che ogni giorno arrivavano freschi dal “contado”: in particolare ortaggi, uova, pollame e formaggi.

Dante Alighieri scrive dunque la Divina Commedia in un periodo nel quale la cucina fa un enorme passo in avanti con la pubblicazione dei primissimi ricettari di cui si ha conoscenza (come ad esempio il Liber de coquina che si pensa venga scritto attorno al 1304). Gli alimenti e la loro preparazione iniziano ad avere maggiore presenza nella letteratura ed è forse per questo che anche Dante decide di inserire nella sua opera dei riferimenti alla gastronomia dell’epoca.

Il cibo è quindi presente in diverse forme nella Divina Commedia.

Nell’ Inferno non è solo il cibo a rientrare nella pena ma anche i molti aspetti che caratterizzano il mondo gastronomico. In un certo senso l’atto stesso del cucinare diventa veicolo di somministrazione della pena ai dannati. Nella quinta bolgia i barattieri, speculatori fraudolenti di cose e cariche pubbliche a fini di lucro personale vengono tenuti sotto la pece bollente. “Non altrimenti i cuoci a lor vassalli” e continua “… fanno attuffare in mezzo la caldaia, la carne con li uncin, perché non galli …” (XXI, 55-57). Qui l’inferno è visto come una grande cucina dove i diavoli, mostruosi cuochi, intimano ai loro sguatteri di immergere bene la carne dei dannati affinché non affiori e cuocia quindi perfettamente.

Scene simili sono descritte in altri punti: i violenti verso il prossimo nella persona e negli averi, per esempio, vengono definiti “bolliti” perché cotti nel sangue.

Queste e altre scene ci permettono di identificare, attraverso le pene inflitte ai dannati, non sono solo mezzi di cottura ma anche altre tecniche come ad esempio la macellazione o la preparazione di gelatine. Gli atti e gli utensili utilizzati rimandano ad un tipico ambiente di cucina, grande fonte d’ispirazione per Dante Alighieri.

La presenza dell’aspetto alimentare è presente anche nel Purgatorio.

Lo sbigottimento delle anime espianti, appena sbarcate sulla spiaggia, viene paragonato alla degustazione di una nuova pietanza “La turba che rimase li, selvaggia parea del loco, rimirando intorno come colui che nove cose assaggia… ” (II, 59-54).

La gola (e le relative pene) non risparmia proprio nessuno, nemmeno il Papa; “dal torso fu, e purga per digiuno l’anguille di Bolsena e la vernaccia …” (XXIV, 23-24), indicando non solo la ghiottoneria di Martino IV ma anche la punizione per questo grave peccato: il digiuno e quindi la privazione di tutte le cose buone.

I canti dedicati al tema della golosità sono tra quelli più realistici della Commedia, catturando la nostra attenzione non tanto con la rappresentazione delle pene di una categoria di peccatori, quanto con la descrizione esatta della terribile fame che doveva essere esperienza quotidiana della vita medievale.

Nel Paradiso, invece, il banchettare non è più fonte di peccato ma premio per una vita corretta. Qui Dante torna ad utilizzare il cibo come metafora. Il cibo quindi lascia il suo mero ruolo di nutrimento e si riveste di significati, riti e simboli. Le schiere celesti vivono di “pan degli angeli” (II, 11) cioè della contemplazione mistica, insieme ai beati e ai santi che si nutrono simbolicamente dei misteri divini, gustandoli in banchetti e mense celesti. In questo caso la ghiottoneria è lecita perché è una golosità di beatitudine, l’atto del banchettare diventa premio per una vita retta e pura; l’atto del nutrirsi viene elevato ad un gesto spirituale importantissimo che i commensali compiono alla presenza di Dio.

Per quanto riguarda il bere, la bevanda per eccellenza di Dante è l’acqua; l’altra è il latte, che cita con significati allegorici: nel canto XXIII del Paradiso, paragona il protendersi dei beati verso Maria allo slancio di tenerezza del bambino verso la madre “poi che ’l latte prese”. Il vino, invece, è la bevanda che procura l’intorpidimento dei sensi e delle facoltà mentali. È però anche la metafora della sete di verità, perché fin dall’antichità esso era connesso alla sincerità: lo dimostra nel canto X del Paradiso, quando, per indicare chi si rifiuta di soddisfare il desiderio di verità di un altro, afferma “qual ti negasse il vin de la sua fiala/per la tua sete…”.

Il legame fra il cibo e la Divina Commedia è quindi profondo, ma Dante raramente descrive o nomina vivande e bevande, sebbene le utilizzi sovente come metafora, uso comune al suo tempo. Ma l’esame della metafora alimentare, o della sua applicazione da parte di Dante, può illuminare determinati aspetti della storia della cultura, aspetti che sono direttamente pertinenti, fra l’altro, alla storia dell’alimentazione.

Nel canto XVII del Paradiso Dante riesce ad andare addirittura oltre la metafora del cibo. È nell’incontro con Cacciaguida che il pane diventa così concreto da assurgere a simbolo universale dell’esilio o, meglio, della perdita degli affetti più cari.

Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale

Questa terzina è forse una delle prime testimonianze scritte (e letterarie) del nostro pane toscano, ovviamente senza sale, pane che ha ottenuto il riconoscimento DOP con la direttiva europea 2016/58/UE, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale della Unione europea il 4 marzo dello stesso anno… quasi settecento anni dopo il Paradiso dantesco.

ILARIA PERSELLO

Ilaria Persello
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